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“Modi di morire” di Jona Heath
Un viaggio con le parole di poeti, scrittori e pensatori sul rapporto medico-paziente quando la medicina è messa in scacco da una malattia terminale o dalla vecchiaia
a cura di Maria Pia De Martino
“
“Modi di morire” è un ponte universale tra scienza e poesia. Jona Heath è un medico di lunga esperienza nell’assistenza ai malati terminali, essendo stata per oltre trent’anni medico di medicina di base. Quando ci si trova dinanzi all’ineluttabilità di una diagnosi inesorabile, ogni uomo compie percorsi diversi per l’accettazione o la non accettazione della realtà. Il medico, colui che segue tale percorso, vive un rapporto difficile con il paziente: dalla diade funzionale Io-Lui tipica del rapporto medico-paziente, dev passare alla diade Io-Tu, soggettivamente illimitata, in cui l’Io soggettivo di entrambi gli individui che si relazionano si attiva. Ed è qui il difficile compito del medico: riascoltare la storia profonda del paziente, cercando di invadere un nuovo tempo di colui che sta morendo, per lasciare alle spalle il tempo della malattia e recuperare la dimensione individuale del morente. Dunque siamo tra due tempi: il tempo del corpo (inesorabile e deterministica è la malattia terminale) e quello della coscienza, dove ciò che prevale in importanza è la profondità e non più la durata del tempo. A ciò è dovuta la distinzione tra corpo e anima in molte culture diverse dalla nostra: l’anima è in assoluto il “ locus” di un tempo diverso. Non c’è una disciplina che possa istruire il medico in questo. Ma Jona Heath ha trovato un aiuto nella poesia di molti grandi autori: il medico, come il poeta, deve gettare un ponte tra personale e universale. Ha scritto Seamus Heaney di “una poesia dove le coordinate della cosa immaginata corrispondono al fardello complesso della nostra esperienza e ci permettono di contemplarlo”. Far luce cioè senza semplificare, quasi l’esatto opposto del dono della scienza che cerca di semplificare per capire. La complementarietà tra scienza e poesia è prodigiosa perchè l’una esalta l’altra: il medico ha bisogno di entrambe, più che mai quando si prende cura di chi sta morendo. “Modi di morire” è un libro straordinario che nasce dall’ordinaria esperienza che un medico fa della morte dei suoi pazienti nell’arco di un lungo tempo materiale che abbraccia anche, ogni giorno la personale esperienza della propria morte. Ma è un libro che soprattutto recupera la dimensione “intellettuale” della morte, facendone un punto di arrivo fisico e metafisico della splendida e tragica avventura umana.
KALON
Spiagge di fluorescenze tra firme di rocce
un corpo a corpo con un sorriso anonimo
le renne di Ludwig, il dolce malato re di neve,
si è fermato perché malate anch’esse
a bere una palude al crepuscolo,
principessa delle nebbie
tra foglie d’oro,
e le finestre di cera dei propri occhi taglienti.
O che male i fiori del male
disperse elemosine prigioniere
di un ciondolo,
le stelle ballano e si avvicinano al confine dell’ombra che ondeggia.
Hevia, creatura sospinta dal vento
tra le mie braccia, ondeggio,
così si perdono gli occhi multiformi d’amore
delle renne di Ludwig, le sciabole di fuoco
che sciolgono le passeggiate del cielo
nelle nostre vene,
delicati a vivere gli esseri del sogno ondeggiano.
I tulipani accarezzano nel prato
il venditore di tende disteso
che lambisce la rugiada
con un ombrellino di felce.
Le relazioni interne positive minori
ondeggiano.
Antonio Vanni
CONFLUENZA
Tutto ebbe inizio
da un mattino traboccante di sole
e in una sera prodiga di stelle;
allora stupore d’infanzia ed esperienza
pervennero a convergere
e giorno e notte distillarono
la stessa luce.
Così, lentamente, comincia
la via del ritorno.
Il fluire del fiume già sa
che l’attende l’Oceano.
Flora Lalli
ADDIO A MIO PADRE
Di sabato mattina, al primo sole
d’aprile, te ne andasti, padre, e tronco
m’hai lasciato,
come chi vaga inerme nel deserto
con la notte discesa in fondo al cuore.
La chiesa, i ceri, i pochi ritrovati
Incanutiti, i fiori e l’omelia,
l’incenso sull’altare, i vecchi oranti,
la bara retta a spalla, claudicando,
la piena delle lacrime sul bavero.
Oh, padre mio degli ultimi respiri
Inchiodato a una scranna di dolore,
tu vivi nella luce dell’Eterno.
Mi ridesto al ricordo di tua mano
sulla spalla, la mano fiduciosa
quando a un lampo degli occhi tu coglievi
la breve delusione giovanile,
quella mano suasiva, rinfrancante
dopo un sudato esame andato male.
Ricordo
la luce ancora accesa del soggiorno,
quando tornavo tardi a carnevale,
confuso di coriandoli e di sogni,
la buona notte affabile, arrochita,
chiudendo sonnolento il tuo giornale.
Padre fidato, vivi entro il mio cuore
come un angelo buono e la tua mano
è sempre qui, per l’aspra via terrena.
Mi parli con la voce di quel tempo
lontano che si spegne all’orizzonte,
grave come i profili delle chiese,
soave come l’aria della sera.
Filippo Solito Margani
ETERNITA’
Insonne terra
che spegne il sapore
e rende cieche
le mie labbra.
Ambiguo mare
che soffia sul mio piede
semenza di lutto.
Ed io, barca che passo
spargo le mie reti
a te che sopravvivi
alla luce del mio sangue.
Paola Casulli
A GEDEONE
Passò il tempo,
amico mio.
E brumosa l’aria
in questa ora di gennaio
spazza lacrime e pioggia
sul tuo corpo nell’addio.
Muto il pianto
in questo giorno senza domani
ti accompagna nell’Infinito.
Mi guardi dalla tua terra
vegliando l’Assoluto,
dalla tua terra
sbocciano lillà.
Maria Pia
TRATTENENDO ME STESSO
Trattenendo
me stesso,
come a un convegno,
sino all'ultimo battito del petto,
tendo l'orecchio:
l'amore riprende a ronzare,
umano,
semplice.
Fuoco,
uragano
ed acqua
s'avanzano con un sordo brontolìo.
Chi saprebbe dominarsi?
Potete?
Provateci...
Vladimir Vladimirovic Majakovski
Mi piaci silenziosa, perché sei come assente
mi senti da lontano e la mia voce non ti tocca.
Par quasi che i tuoi occhi siano volati via
ed è come se un bacio ti chiudesse la bocca.
Tutte le cose sono colme della mia anima
e tu da loro emergi, colma d'anima mia.
Farfalla di sogno, assomigli alla mia anima
ed assomigli alla parola malinconia.
Mi piaci silenziosa, quando sembri distante.
E sembri lamentarti, tubante farfalla.
E mi senti da lontano e la mia voce non ti arriva:
lascia che il tuo silenzio sia il mio silenzio stesso.
Lascia che il tuo silenzio sia anche il mio parlarti,
lucido come fiamma, semplice come anello.
Tu sei come la notte, taciturna e stellata.
Di stella è il tuo silenzio, così lontano e semplice.
Mi piaci silenziosa perché sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Basta allora un sorriso, una parola basta.
E sono lieto, lieto che questo non sia vero.
Pablo Neruda
Hai gli occhi di Era, Melite, e le mani di Atena,
il seno di Afrodite e le caviglie di Teti.
Beato chi ti guarda, tre volte di più chi ti ascolta,
un semidio chi ti ama, un dio chi ti possiede.
Vorrei quando sono con te, cara la mia citarista,
imitarti: toccarti in alto e farti vibrare nel mezzo.
Se qualcuno mi biasima perché, al servizio di Amore,
cammino tenendo sugli occhi il vischio dei cacciatori,
pensi a Zeus, ad Ades, al signore del mare,
che tutti furono schiavi di desideri possenti.
Se loro sono dei, e ci dicono di seguire gli dei
Che colpa ho io se apprendo gli insegnamenti divini?
Rufino
FARE MONDI….PER FARE UN MONDO
Si riconferma la necessità di elementi insostituibili
per l’identità oggettiva e soggettiva dell’arte
L’arte intesa come dinamica ruota in movimento che percorre il mondo con l’obiettivo di costruire mondi senza pretendere di uniformarli. Per il compimento del passato e rendere possibile un futuro, in sintesi questo è stata la sostanza espositiva della 53à Biennale di Venezia. In una traduzione linguistica il tema è reso filologicamente in maniera perfetta: “Facere de lumi”, infatti si può affermare essere la ricerca di quelle luci, di quelle intelligenze e spiriti che garantiscono nuovi mondi, occorre però trovarli veramente e che siano reali. Viviamo in un tempo dove il mondo conosciuto e sconosciuto è a rischio, quindi è imperativo trovare strumenti per altri inizi, ma con lo scopo di “fare finalmente un mondo” in più modi possibili, autentico e sano come non mai, superando definitivamente il passato per entrare nel futuro, quello da sempre atteso come futuro… nato dall’aver fatto un mondo. L’arte dovrà divenire sempre più propulsiva e costruttiva, non solo forza antagonista all’appiattimento, ma capace di prendere in mano le redini della società, sebbene lasci a tutti il proprio ruolo. Ed è anche il miglior antidoto a ritorni politicamente rivoluzionari e al nazionalismo da non confondere con un pensiero politico forte in grado di riaprire strade tese a riordinare il mondo prima di ricreare il mondo. Se è possibile dire che nascono nuovi mondi dove i mondi s’incontrano, è maggiormente giusto dire che l’incontro dei mondi è l’aspettativa di un pensiero e di un ideale comuni per quanto espressi e concretizzabili in diverse forme. Settantotto artisti hanno esposto dall’Arsenale ai Giardini, con settore dedicato alla ricorrenza centenaria del movimento futurista, ma a onor del vero la qualità di questa edizione, servizi compresi, mi è parsa inferiore alla precedente, malgrado tutte le enunciazioni per risolvere le problematiche delle nuove politiche etiche ed economiche che hanno trascinato la Biennale in una crisi ideale dell’arte. L’arte deve trasmettere al mondo ciò che essa è e ciò che può fare per esso nel modificare, migliorandone, i suoi palcoscenici e le sue leggi; cosa difficile da attuare se il suo movimento è lento e il suo cambiamento è solo di facciata. L’Arte crea il mondo? Lo si ribadisce per una Biennale in movimento secondo il Direttore Daniel Birnbaum, peccato che in questo tempo storico così epocale l’Arte non sia ancora resa “Mondo completo e universale”. Le espressioni di questa edizione hanno evidenziato, più che negli anni passati, il senso storico dell’evoluzione della società, sebbene non ci sia la chiarezza e la precisione che contraddistinguono i veri periodi rinascimentali… Non ci sono state singole opere che si siano particolarmente distinte, a parte l’installazione di “una città confusa illustrata con bottiglie e oggetti vari, anche luminosi”, segno e simbolo del momento attuale di una società di speranza. Anche i venti artisti italiani presenti si sono sforzati di fare del loro meglio, soprattutto Luca Pignatelli, Giacomo Costa e Marco Lodola Una Biennale di protesta “mascherata da intenzioni vere di rinnovamento? Tra lodi e allarmismi sembra vi sia stato una specie di stillicidio polemizzato e polemizzante a riprova che sulla Biennale da anni incombe la contraddizione. Come può l’artista essere al servizio del quotidiano? I record, i grandi numeri, la folla di visitatori, ancora una volta “abitudine di un giusto desiderio collettivo inconscio legittimo e naturale, ma non si sentono fino in fondo gli echi dell’anima e il colore del tempo… Il cuore è e rimane Venezia, ma nel diffondersi essa può raccogliere frutti da terreni fertili prima non stimati.“Retrofuturismo – futurismo - neofuturismo”, come dire di un passato vicino sempre presente, ponte di elaborazione storica e in definitiva un tempo che non dovrebbe più avere il peso e il senso delle troppe remore “dei mondi…” Giuseppe Pietroni
DESTINO
Il fatato destriero accelera.
Invecchia.
Ma non è così.
Ci offusca ogni volta la colpa
di braccarlo sempre più audaci.
Ma lui non cambia.
Consunti da sempre i suoi zoccoli
scalpitano di suono uguale
echeggiano in valli e monti. Coperti. Avvolti.
A volte sembra si fermi
come negli occhi il miraggio
illusi nel sordo rumore dell’ennesima attesa.
Ma si allontana solamente.
Guardandoci per burla.
Non dirlo e lasciarci fermi al palo.
Dominick Ferrante
DALL’OMBRA
Dall’ombra risalirai
con la vita dei gatti
appesa alla cintura
e nella musica
troverai oceani
quando gli angoli
delle strade saranno lontani.
Francesco Salvador
SULLA GIOSTRA DEL TEMPO
Si dilata
nel tempo la ragione
continuamente alla ricerca
della luce della verità
e nel riflesso
di esili parole
cerchiamo insieme
strade più tranquille
restando immobili
ne vuoto dirompente
di impalpabili richiami.
Claudio Perillo
E senza titolo
siamo cresciuti
all’ombra delle parole,
senza il tuo piccolo aiuto,
io perdo la notte.
Guadagno il cielo,
ma mi s’è sfuggita
- per ora- l’eternità.
Cercando nel nulla
naufrago in un oceano d’astri,
splendendo nell’alba
risveglio le ali.
Volo di gabbiano
“giungiamo” alle nostre anime
creando nuovi orizzonti.
Apro le pagine
di questa storia
e sento il profumo
della carta bagnata che
dalle mie lacrime
si rompe come il tramonto
quando s’immerge nel mare.
Sono venuto al mondo
che avevo fame d’amore.
Vado via sazio
ora che il sonno m’avvolge
Questo scritto nasce la sera del 22 luglio 2009
quando cinque amici incontrano un personaggio immaginario che chiameranno “fratello pasquale”.
IL VINO DEGLI AMANTI
Posar la bocca
e’ desiderio irrefrenabile
del vin versato dalla brocca
o sui tuoi seni
deposti nella coppa
Voglia di scivolar
nel rosso granato
per assaporar
la tua di lingua
al mio palato
E’ il tuo di crine
biondo paglierino
il color del vino
che reputo divino
Sarà che il frutto
di pesca intinge
come le tue labbra
di carminio tinge
Nettare dal sapor robusto
si stende su cibi arrosto
come te mia anima gemella
emani luce tua di stella
Si trasferisce ed allarga
sul giaciglio che dilarga
il piacer della tavola
che l’amor trasforma in favola
Uniti dal piacer del gusto
fusi nei corpi con tutto il busto
riemergiamo nell’apice del vento
assaporando vini in numero più di cento
Angelo Cocozza
ANCHE QUESTA MATTINA
Anche questa mattina mi sono svegliato
e il muro la coperta i vetri la plastica il legno
si son buttati addosso a me alla rinfusa
la luce d’argento annerito della lampada
mi si é buttato addosso anche un biglietto di tram
e il giallo della parete e tre righe di scritto
e la camera d’albergo e questo paese nemico
la metà del sogno caduta da questo lato s’è spenta
mi si è buttata addosso la fronte bianca del tempo
i ricordi più vecchi e la tua assenza nel letto
la nostra separazione e quello che siamo
mi sono svegliato anche questa mattina
e ti amo.
Nazim Hikmet
VIA
CIGNA
In questa città non c’è via più frusta.
E nebbia e notte; le ombre sui marciapiedi
che il chiaro dei fanali attraversa
come se fossero intrise di nulla, grumi
di nulla, sono pure i nostri simili.
Forse non esiste più il sole.
Forse sarà buio sempre: eppure
in altre notti ridevano le Pleiadi.
Forse è questa l’eternità che ci attende:
non il grembo del Padre, ma frizione,
freno, frizione, ingranare la prima.
Forse l’eternità sono i semafori.
Forse era meglio spendere la vita
in una sola notte, come il fuco.
Primo Levi
Proviamo a interrogarci oggi sulla parola democrazia. Democrazia è, come è noto, un sistema di governo in cui i consociati, detti nelle fasi più mature ‘cittadini’, eleggono attraverso determinati meccanismi i loro governanti. Eleggere significa designare con voto qualcuno perché esprima la sua volontà. Nella democrazia rappresentativa colui che elegge delega un suo designato a rappresentarlo, ossia a esprimere con autonomia di giudizio la volontà di chi l’ha designato. È semplice capire, quindi, che con quest’atto di delega colui che delega esprime fiducia nelle capacità del suo delegato di esercitare un’intelligente autonomia nell’esprimere la volontà di chi l’ha delegato. Ma veniamo al punto. Che cosa accade in un sistema elettorale in cui siano state abolite le preferenze da parte degli elettori? Accade che il voto dell’elettore servirà non a far decidere quale candidato di quale partito prevarrà, ma soltanto a far decidere quanti candidati di quale partito potranno essere eletti. L’elettore, cioè, è chiamato a svolgere un ruolo di ‘pulsante’, per giunta anonimo, schiacciato il quale entrerà nella conta che decide quanti candidati di ogni partito saranno eletti. Infatti, la scelta che concerne quali candidati potranno essere eletti è stata irrevocabilmente già compiuta da coloro che hanno collocato in una certa graduatoria i candidati all’interno della lista da votare. Certamente, in una situazione del genere l’elettore potrebbe decidere di non votare. Ma, qualora non votasse, egli senza saperlo, delegherebbe di fatto la designazione agli altri elettori che, invece, voteranno. Infatti, nei sistemi elettorali concernenti le elezioni politiche non vige il numero legale minimo per la validità della votazione, dal momento che, anche se votassero in pochissimi, sulla base di quei pochissimi si deciderebbero le percentuali della totalità dei seggi da assegnare agli eletti. Ciò significa che la volontà dell’elettore concorre soltanto a decidere, insieme con gli altri, il numero dei candidati da eleggere, ma non i loro volti, essendo i loro volti già stati decisi da coloro che hanno composto le liste da votare. Chi sono coloro che hanno composto le liste da votare? Sono i nuclei ristrettissimi delle segreterie dei partiti, i quali corrispondono a nuclei ristrettissimi di eletti in Parlamento.Tutto ciò premesso, che cosa accade, in un sistema elettorale senza preferenze quando si ha la convocazione dei comizi elettorali? Accade che nuclei ristrettissimi di eletti invitano gli elettori a votare. Invitano cioè ogni elettore a schiacciare il proprio singolo pulsante per designare un volto che è stato già deciso da quelli stessi che lo hanno invitato a votare. Qualunque cosa faccia o non faccia l’elettore è in trappola: egli è chiamato a decidere un contenuto che altri hanno già deciso. È l’elettore ad essere ‘votato’ dall’eletto. L’elettore è carne da voto. Dicevamo che eleggere significa che l’eleggente designa qualcuno a esprimere la sua volontà. Nel sistema elettorale senza preferenze l’eletto che ha composto la lista da votare al momento della convocazione dei comizi elettorali designa l’elettore a esprimere la volontà dell’eletto. Ne nasce, per la democrazia ‘rinnovata’ dall’abolizione delle preferenze, una curiosa svolta epocale: gli eletti designano gli elettori a esprimere la loro volontà, ossia gli eletti eleggono gli elettori. In realtà, la vera svolta epocale è un’altra. È nel fatto che una tale ‘democrazia’ non si vergogni più di sé stessa. Quando avverrà che un eletto al Parlamento finalmente si vergogni davanti al cittadino che non l’ha mai eletto e se lo trova suo rappresentante? Quando avverrà che un sussulto di vergogna pervada i cittadini fino al punto da far traboccare il loro sdegno contro coloro che non si vergognano di non aver vergogna utilizzando questo metodo pubblicamente truffaldino? Si noti. Una tale situazione non si può addebitare a un solo colore politico: essa è voluta, o almeno tollerata, o almeno tacitamente sfruttata, da tutti i colori politici. Ciò si dica non in nome di un qualunquistico atto di accusa contro tutti i partiti ma in nome di quella pubblica dignità civile che non può essere delegata a nessun partito e che rimane la cifra originaria della politicità. Quando accadrà che la rivolta dei cittadini sdegnati travolgerà il gruppo privilegiato di coloro che oggi non si vergognano? Per ora sotto la parola democrazia rimane scritto così: “sistema di governo in cui gli eletti eleggono gli elettori e i governati eleggono il popolo”. Quali saranno i passi successivi? Giuseppe Limone
Lucidità della speranza
nella poetica di
Giuseppe Limone
come smarrimento
del senso nella prosa
di Angelo Cocozza
La parola è forza, variante, attraversamento del luogo altro da sé e in sé. Uno scrittore, un poeta, trafiggono davvero la cifra del tempo, perché tutto passa, trapassa e sorpassa persino un simbolo, un cielo, una spada, tranne la coscienza propositiva della Parola edificante la cosiddetta “vis”, energia dell’oggetto che sfugge naturalmente alla constatazione e alla conclusione. Se tutto ciò è supportato dall’emozione, il prestigio è compiuto. Il poeta, o colui che crea energia con la scrittura deve definire e poi ancora definire finché il particolare alla superficie venga a sovrapporsi alla radice della giustizia, per dirla con Ezra Pound. Giuseppe Limone e Angelo Cocozza lontano tra di loro per generazione, per formazione culturale e percorsi esistenziali, sembrano condividere il punto cruciale, il condiviso salto nella logica di un senso, meglio del senso. Giuseppe Limone nella poesia “Notte di fine millennio” cifra indelebilmente il varco verso la speranza, lucida e soave, prospettivamente salvifica per l’uomo. E con la definizione di una parola “bellica”, forte di potenza devastatrice ma pacificante, assurta nel significato massimo di essa: nel simbiotico esistere di soggetti verbali fluidamente riappropriatisi della giustizia, il poeta ritorna al limbo del pensiero, misurato da cifre arcaiche di oggetti eleganti e solitari. E’ qui che nasce “il leggendario esistere dei nostri anni” che “nell’incendiaria quiete si fa rupe… nel millennio che si apre”, laddove in una quiete ossimoricamente entropica entriamo noi, inconsapevoli ad attraversarla infine, esattamente uguali ed ineguali a noi stessi, “consegnandoci a noi, senza fede, senza l’ultima gioia che in un punto un’innocenza senza meriti ci salvi”. E se “l’azzardo nella luce” è parola lieve con cui sfuma “Notte di fine millennio” in promessa sottesa, Angelo Cocozza in “Solitudine” acceziona “inutile” l’azzardo della propria ultima passione al cospetto di Dio, che solo può guardare e comprendere il limite. Decade il senso, qui dove egli depone il suo ultimo affanno, anche semanticamente. E dopo l’inconsapevole salto, l’azzardo nella luce diviene ancor più inutile, se ad attendere il poeta e l’uomo non v’è neppure la domanda. “L’inutile azzardo”: tentativo della parola che celando la propria radice, abilmente trasfigura in accezione negativa, non negandosi però alla luce. Se il senso decade, l’inutile si annulla e diventa semplicemente “azzardo” che guarda alla luce, passando forse in quel reale specchio di trasfigurazione che è “il mondo della carta assorbente”, mondo fantastico dove la levigata parola narrativa di Giuseppe Limone colloca l’avventura di Rob, protagonista del capolavoro del Nostro “Incontrando il possibile re”. Contiguamente Angelo Cocozza nei racconti brevi della raccolta “Donne e Colori”, in una narrazione meno sofisticata ma ugualmente elegante, propone l’ennesimo volto del senso decaduto, con una parola asciutta che quasi non ha bisogno di interpunzione per giustificarsi, propone una terra di erranza dove vari personaggi si misurano in livelli paralleli su medesime strade, senza incontrarsi mai se non nell’ultima frase del racconto che chiude la raccolta, “L’ultimo saluto”: il protagonista che nell’ultimo giorno dell’ultimo mese dell’ultimo anno del millennio appena trascorso, proprio nell’ora cioè in cui si fissa “l’azzardo della luce” di Giuseppe Limone, troverà il senso del proprio esistere, quando dopo una metaforica giornata in cui tutto è metaforicamente ultimo e ultimativo, salterà da un balcone dell’ultimo piano per approdare – e mi piace pensarlo – in quel mondo della carta assorbente da cui emerge Rob per continuare la ricerca del senso. Qui la prosa limpida di Angelo Cocozza incontra la poesia levigata di Giuseppe Limone: decadimento del senso come smarrimento della gioia che solo la bellezza della Parola, maestosa e sublime, può riscattare. Come “l’azzardo inutile” di Angelo Cocozza naturalmente fluisce in quell’ “azzardo di luce” di Giuseppe Limone proprio in quella notte di fine millennio che celebra per entrambi il passaggio alla vita nuova, restituendo alla Parola la propria radice di giustizia.
di Maria Pia De Martino
Solitudine
Incomprensibili giorni
scivolano dentro il mio pensiero.
Sul vecchio calendario
osservo il presente
e mi assale il tormento
della notte che verrà.
Come un giardino incolto
sento avanzare il deserto
sotto i colpi dell’afa,
non un merlo tra i rami
né un gatto tra gli arbusti.
Il cuore mi sanguina,
la sorgente è prosciugata
e tu non ci sei.
Ho chiesto a Dio
di svelarmi il segreto
della dorata illusione,
ma è l’inutile azzardo
di questa mia ultima passione. Angelo Cocozza
Notte di fine millennio
E’ dolce e testardo questo capo
verde a dirotto che trapassa il mare
a proteggere un lembo
in un arco d’aiuto, nel cavo d’una mano
come in un costone del mondo, come un tronco di
titano. Si reticola in fuochi, in accensioni
mobili e s’infiorda
qui la passione della luna
bianca nei fondali delle luci, nei gorghi ardui, nei
filtri degli sguardi naufragati. Dicono che un Dio
un giorno fissò l’anima a presidio
in questa rupe, anello di vertebra
su un mare
che risponde all’abbraccio
istituendone i confini. Qui non c’è memoria
dei trucidati del mondo. Questa fine millennio
è una bizzarra invenzione del calcolo
nostro del tempo, irresistibile e falsa, che sprigiona
stalattiti di lampi, ma niente ha del tempo se non la
nostra illusione mortale.
Il leggendario esistere dei nostri anni
in questa incendiaria quiete si fa rupe
a crinale nel millennio che si apre,
che ci prende sul serio e ci dissolve
e salpa al largo nei corpi delle barche,
dei natanti, dei gozzi, delle vele,
delle lampare, delle aspettazioni di fontane
e si trasforma
nel correre d’un putto appena nato ora che scende
a raccogliere il tempo ereditato
nei calzari delle lucciole del mare. Qui
Posillipo s’avvera
in un tripudio di fiammule,
anime controluce
nella notte
a un sole bianco unico destato. Qui
in quest’anello del tempo roso d’aria,
aperto e chiuso fra la terra e il mare,
riappaiamo a noi stessi
nello specchio del millennio che si chiude. Tutta la Pasqua
delle nostre scoperte
è miseria all’occhio del creato,
che ci scruta, solo
l’anima è vera, e il dolore, e questo nostro
non essere che noi, irrimediabili e noi, il friabile
conato di passare
per la cruna del mondo – ciascuno
con le sue impronte digitali. Tutto l’infinito dei numeri è
esiguo a questo varco, il nostro nome
soffiato
su ala di farfalla
resiste al martello del conio, non può e sa esser digitale.
Non il millennio ci apre, ma noi inconsapevoli l’apriamo
consegnandoci a noi, senza fede, senza l’ultima gioia che
in un punto
un’innocenza senza meriti ci salvi. Perché la vita
è un sogno
scattato al vero
dalla memoria fotografica d’un Dio. Solo una testarda
follia forse da qui ci lega
al sangue irresistibile del mondo, a chi ci segue. Granito è
la tenerezza della sera
di questi giorni, nel corale silenzio, questa speranza di
trasecolare in posteri migliori, in bimbi
d’oro e grano. Qui
nell’uovo del mondo
di questa rupe ci lascia a meditare
questo capo di terra
tardo e tenace,
come una parola ancora in volo
come un azzardo nella luce. Giuseppe Limone
BELLA
ACHMADULINA
PELLEGRINA SULLA SOGLIA
DEL TEMPO
Nel 1937, primo centenario della morte di Aleksander Puskin, nasce a Mosca Isabella Achmadulina, detta Bella, poetessa tra le più importanti personalità della seconda metà del Novecento russo. Nella sua poesia aleggerà per sempre il maestro Puskin e il ricordo dei predecessori che hanno dato la vita per la libertà: Mandelst’am, Achmatova, Pasternak, Cvetaeva. La Achmadulina entra in scena negli anni ’50 ed in pieno “gelo”. Non si studia la poetica della nostra o almeno non solo. Si tratta con ella di intendere gli effetti della sua decisione e di raccoglierne i frutti, con l’apertura di cinema, teatri, case editrici, gallerie e luoghi di aggregazione per accogliere ed ascoltare quanti si affermeranno con lei e dopo di lei, per vivere la libertà di parola di un Paese che sarà fondamentale per l’Europa che verrà. Perseguitata ed espulsa più volte dalla Russia per la sua testimonianza poetica, dopo aver attraversato tutte le più recenti epoche “persecutorie” dopo anche il primo disgelo del 1954 con Chruscev fino al ’64 e con Breznev in seguito, è solo dagli anni ’80 che la sua poesia è stata pubblicata ufficialmente, raccogliendo ai suoi readings folle oceaniche di giovani follemente innamorati della sua avvenente parola e della sua propria avvenenza. In un paese dove essere poeti significa essere perseguitati, perché il poeta trascina verso ideali universali di libertà, al pari di rivoluzionari veri e propri, ella ha dedicato molto della sua produzione poetica ai grandi amici – alcuni uccisi dal regime, anche in modo indiretto, come la Marina Cvetaeva – . Famose le poesie “dedicate” alla Cvetaeva, a Pasternak, a Blok, anche se come già detto il fondamento della sua parola poetica lo si ritrova inequivocabilmente in Puskin. Ecco dunque che il poeta è colui che assorbe dal mondo lo stampo dell’inesplicabile, non l’ineffabile, ma solo quell’inesplicabile nascosto nella grande varietà delle relazioni umane, nella loro contraddittorietà. Bella
Achmadulina non è un poeta che canta l’amore nella sua pienezza, ma ne intravede l’amarezza della fine, del disincanto, concentrando l’emozione su un gesto, su un oggetto, come
usava fare Achmatova. Una poesia immaginifica che trova nelle forme più distese il suo significato metaforicamente riuscito. Un ritmo che negli anni si è rivelato sempre più sofisticato per una poesia che pone la poetessa al centro di se stessa; tutto di lei sa il lettore, dal luogo in cui vive all’amore che la tormenta, dalla sua lieve balbuzie alla sensuale frangia nera dei capelli. L’intensità della sua poesia io l’ho ritrovata nei versi più segreti come pieghettatura all’interno del componimento recitato con ironia simile ad un teatro che improvvisa un testo dolorosamente scritto. L’ossessione per la scrittura si accompagna alla notte, come l’alba alla pagina bianca, nella solitudine. La natura ha un posto dominante, in una compenetrazione con la parola, la natura che si trasforma col passare delle stagioni, delle ore, come colore odore e musica che si fanno parola. Quando l’anima resta sana ma i nervi saltano gli esiti sono molto tristi. Una grande responsabilità per la scrittura come nella sua affermazione: “sono timida dinanzi ad un foglio bianco come una vergine dinanzi all’amante: così abbasso gli occhi di fronte al foglio bianco, come un pellegrino sulla soglia del tempo”.
Maria Pia De Martino
Notte
ad Andrej Smirnov
E’ l’alba, e ancora la mia mano
non ha il coraggio di sfidare l’aria
impietrita sopra lo scrittoio
per raggiungere il bianco della carta.
Vergognosa della propria imperfezione,
la mia ragione onesta e inflessibile
vieta alla mano la beata gioia
d’intrecciare, spensierata, giambi.
Quando il buio è pieno di significati
è facile scambiare per ingegno
l’ustione (un’idea infelice) sulla fronte,
gli effetti della caffeina, l’azzardo della notte.
Ma il mio senno è proprio grande e intatto
se nella lunga follia di queste veglie
non esibisce a proprio vanto
questa smania, ardente come genio.
Non è peccato ignorare la propria sventura.
È così dolce, così innocua la lusinga
di violare l’anonimato di questa notte
chiamando per nome tutto ciò che è in lei.
Mentre impongo alla mano di non muoversi,
ogni oggetto mi guarda con civetteria,
si pavoneggia, segue ogni mio gesto
mirato a cantare le sue lodi.
E quando ormai è convinto del mio amore
borbotta con vocina querula.
La sua anima vuole essere cantata
-e da me, da me soltanto.
Come vorrei ringraziare la candela,
immortalare la sua amata luce
offrendola all’infaticabile carezza
degli aggettivi! Ma di nuovo taccio.
E’ doloroso, sotto la tortura del silenzio,
non riconoscersi con una sola parola
nella bellezza di tutto che il mio amore
guarda con severità dal buio.
Di cosa mi vergogno? Perché sono libera,
nella casa deserta, sotto la piena della neve,
di scrivere – se non bene,almeno onestamente –
della casa, della neve, dell’azzurro alla finestra?
Iddio mi conceda il pudore
di fronte alla carta indifesa,
alla chiara e semplice candela,
al mio viso che scivola nel sonno.
1965 Bella Achmadulina